La storia di un bambino abortito che lotta per la sopravvivenza

 

Non aveva malformazioni

Un bimbo sopravvissuto
all’aborto "terapeutico"

 

Vi presentiamo una storia che si è svolta in Italia, a Pavia. Ma che avrebbe potuto svilupparsi benissimo anche da noi, in Svizzera.

Quella degli esami prenatali è, infatti, ormai una pratica quotidiana in medicina. Fin tanto che gli accertamenti sono finalizzati a mettere in luce patologie curabili del bambino o della madre non c’è nulla da ridire al riguardo. Spesso, però, le indagini non sono volte a curare ma a permettere l’eliminazione del bambino prima della nascita. La cosiddetta soluzione "eugenetica" (aborto in caso di presunta malformazione o malattia del bambino) è purtroppo realtà corrente anche nel nostro paese, spesso nascosta sotto la giustificazione pietosa di un accresciuto rischio suicidale per la madre.

Intendiamoci: nessuno vuole negare l’angoscia che può provocare nella madre e nella famiglia la prospettiva di avere un figlio malformato o malato. E non è neppure da tutti di essere pronti ad assumersi le fatiche e le difficoltà legate ad una simile ipotesi. Ciò nonostante non si può mai dimenticare che quello che si elimina con l’aborto "terapeutico" è un bambino, per quanto piccolo e indifeso sia. Che, oltretutto, non è spesso neppure malato o malformato.

«Non ha la malformazione al cervello che era stata ipotizzata in gravidanza, c’era una piccola emorragia ma nessuna malformazione.» Il professor Giorgio Rondini, primario della Divisione di patologia neonatale e terapia intensiva del Policlinico San Matteo di Pavia, e la sua équipe hanno da 15 giorni in cura il piccolo sopravvissuto all’aborto "terapeutico" e rifiutato dalla madre. Una buona notizia dietro la quale emerge una drammatica verità: quel bimbo era stato condannato a morte per un male che non aveva.

Spiega Rondini: «Abbiamo riscontrato un’emorragia cerebrale, un piccolo versamento non di tipo malformativo che però poteva simulare all’ecografia l’ipotesi di un idrocefalo (malformazione che impedisce la circolazione del liquor cerebrale, che si accumula e danneggia lo sviluppo del tessuto cerebrale).»

La sorpresa al momento della nascita pretermine che per quel bambino doveva essere la morte: il bimbo non solo era vitale ma anche normale. «Ha subito risposto alle terapie intensive oggi previste» dice Rondini. «E a 15 giorni dalla nascita è ancora in vita. Per essere sicuri che ce la faccia bisogna però attendere un mesetto. Soltanto dopo le 30 settimane gestazionali avremo la certezza di averlo salvato e la possibilità di valutare eventuali danni legati a questa sua nascita pretermine».

Il bambino, che in reparto tutti chiamano affettuosamente "il piccolo", non ha ancora un nome e continua la sua battaglia per la vita: pesa circa 800 grammi, le sue condizioni sono in leggero miglioramento, ma lo stato generale rimane critico. Non si tratta comunque di una sopravvivenza "miracolosa". Rondini parla chiaro: «Oggi sempre più spesso accade che bambini nati pretermine, a 25 settimane di gestazione (180 giorni di vita nell’utero materno), sopravvivano se assistiti (così come obbliga la legge, la morale, la deontologia) con le moderne tecniche. Dieci-quindici anni fa sarebbero morti dopo qualche ora. Attualmente, invece, oltre il 60% dei nati alla 25ma settimana di gestazione sopravvive. Il limite in cui non c’è alcuna possibilità di farcela è sceso alla 23ma settimana (161 giorni). Occorre quindi rivedere il limite di età vitale del bambino: dai 180 giorni finora considerati a 161 giorni. Sarebbe bene che leggi e istituzioni si adeguino.»

La normativa italiana prevede che se c’è possibilità di vita autonoma del bambino, il medico deve tutelarla. Anche l’iniqua legge 194, in un simile frangente, prevede infatti l’aborto solo in caso di pericolo di vita della madre.

 


 

Autore

Dal Bollettino d’informazione dell’associazione "Sì alla Vita", numero 152, marzo 1999, pagina 1.
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Pubblicazione Ultimo aggiornamento 06.04.09
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